PROFONDO NORD, IL CASO TRIESTE

Grazie a Fausto Bertinotti che ha chiesto un mio articolo su Trieste per la sua rivista, Alternative per il socialismo. E’ uscito nel numero 61 che si intitola Fare l’inchiesta, la potete ordinare su internet o in libreria. E’ piuttosto lungo perché prova a raccontare cosa è successo in questa città negli ultimi anni: l’economia e il Porto, la politica, la società. Se volete leggerlo impaginato o scaricarlo lo trovate anche nel link qui sotto, buona lettura!

PROFONDO NORD, IL CASO TRIESTE

Secondo Karl Marx il porto di Trieste – siamo nella seconda metà del 1800 – rappresenta l’inizio della modernità, il luogo dal quale osservare la traiettoria delle merci e lo sviluppo del capitalismo. La città negli anni ha subito diversi processi storici e culturali, ed è diventata terra di grandi contraddizioni: da una parte avamposto dell’irredentismo e del nazionalismo e dall’altra crocevia di popoli, di lingue, di culti in cui per prima in Italia arriva la psicoanalisi freudiana e in cui James Joyce scrive i Dubliners e una parte dell’Ulisse. Trieste è la città dove i nazisti costruirono il campo di sterminio di San Sabba e in cui ancora oggi vive il pensiero di Franco Basaglia, la più grande rivoluzione contro le istituzioni totali che l’Italia e la cultura internazionale abbiano conosciuto. Tutto questo portato di libertà, cultura, economia e storia si respira ancora oggi in un momento in cui, sempre grazie al porto, la città sta iniziando una nuova stagione di sviluppo. Ma questo accade, ecco l’ennesima contraddizione, con la città governata da una destra provinciale, senza idee sulla città e sul suo sviluppo. Il sindaco, Roberto Dipiazza, viene da Forza Italia e negli ultimi vent’anni ha governato la città per 15. Il presidente della regione è Massimiliano Fedriga, faccia presentabile e apprezzata della Lega più feroce, quella della propaganda contro i migranti di passaggio a Trieste, tappa obbligata della rotta balcanica. E il centrosinistra – che pur avendo governato la stagione del cambiamento per cinque anni in Regione e Comune ha perso pesantemente le ultime elezioni – che cosa fa? Che cosa fa la società civile pure così viva? Perché c’è uno scollamento tra economia, società, cultura da un lato, e politica dall’altro?

Il porto internazionale

Con due articoli scritti sul New York Tribune il 9 gennaio e il 4 agosto 1857, Karla Marx descrive così la nascita del porto, allora parte dell’impero austroungarico: «Da una piccola rada rocciosa, abitata da pochi pescatori nel 1814, quando le forze francesi sgombrarono l’Italia, Trieste si era fatta porto commerciale, con 23.000 abitanti e il suo commercio superava tre volte quello di Venezia. Nel 1835, un anno prima che il Lloyd austriaco nascesse, contava già 50.000 abitanti e, poco dopo, occupava il secondo posto dopo l’Inghilterra, nel commercio con la Turchia, il primo nel commercio con l’Egitto». «Perché Trieste e non Venezia? Venezia – continua Marx – era la città delle memorie; Trieste aveva, al pari degli Stati Uniti, il vantaggio di non possedere un passato. Popolata di commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei in variopinta miscela, non piegava sotto le tradizioni».

Sono passati quasi due secoli e il porto ritorna a essere centrale nella vita economica, politica e culturale della città. Oggi infatti Trieste rinasce innanzitutto perché attraverso il porto riacquista un ruolo nell’economia europea, o meglio un ruolo nel rapporto fra l’economia europea e l’economia del resto del mondo esattamente come avveniva nell’epoca descritta da Marx. La rinascita inizia quando alla guida dell’Autorità portuale, con la riforma Delrio (governo Renzi), arriva Zeno d’Agostino. In circa un anno Trieste diventa competitiva con i grandi porti europei come Amburgo e Rotterdam per i tempi di percorrenza delle merci dal Far est al Centro Europa, e viceversa. Rispetto ai porti del Nord Europa, infatti, passando dal Canale di Suez – aperto nell’800 sotto la guida di un triestino, il barone Revoltella – garantisce tre giorni di navigazione in meno. Come è stato raggiunto questo risultato, già possibile ma mai ottenuto prima? Principalmente per due motivi. Il primo è la riorganizzazione della logistica retroportuale, e in particolare la “cura del ferro”, la scelta di investire sulla rete di trasporto ferroviario. Anche attraverso una società in house, Adriafer, D’Agostino riprende in mano la rete ferroviaria, in parte di realizzazione asburgica e all’avanguardia della tecnica per l’epoca, l’ammoderna e la riconnette alla circonvallazione sotterranea costruita negli anni ’70 per collegare il porto nuovo alla rete nazionale, eliminando poi la doppia manovra ferroviaria che allungava i tempi per formare i convogli. Riorganizzando il retroporto, e rilanciando contemporaneamente altri interporti presenti in tutta la regione, i container e le altre merci possono uscire sui treni, e Trieste diventa in poco tempo il primo porto ferroviario italiano.

Il secondo fattore. Innovazione e sostenibilità da sole non bastano, per crescere bisogna soprattutto investire sulla qualità del lavoro. D’Agostino e il segretario dell’autorità di sistema portuale, Mario Sommariva, capiscono per cultura e per formazione, che senza la piena collaborazione e convinzione dei lavoratori non si può chiedere e ottenere innovazione di processo e non si migliora la capacità di movimentazione delle merci, che in un porto è fatta di puntualità e precisione ma anche di flessibilità organizzativa. Per questa ragione stringono un vero e proprio patto con i lavoratori e le imprese del lavoro portuale: più volumi movimentati più continuità di lavoro, più lavoratori e organizzazione più stabile, più sicurezza, più diritti e più salario. In pochi mesi, Trieste abbandona velocemente la condizione di porto con i lavoratori più precari in Italia per la gestione dei picchi di manodopera. Fino a quel momento erano state usate con spregiudicatezza la deregulation e la flessibilità quasi incondizionata garantite dalla legge di riforma dell’84, quella che aveva soppresso il regime monopolistico di cui beneficiavano le compagnie portuali aprendo vere e proprie autostrade all’ingresso dei privati nell’organizzazione e somministrazione del lavoro portuale. D’Agostino e Sommariva cambiano totalmente registro: capiscono che senza un’alleanza con i lavoratori e con il lavoro non si può essere competitivi. La possibilità di organizzare efficacemente la logistica del porto e del retroporto è un fattore direttamente connesso alla stabilità e alla sicurezza dei lavoratori e ai loro diritti.

Il nodo della ferriera

La rinascita del Porto – primo in Italia sia per volumi complessivi che per traffico ferroviario, undicesimo porto d’Europa per traffico totale in tonnellate, oggi già molto oltre i diecimila addetti diretti e indiretti – inizialmente accompagna e poi guida la rinascita della città. E’ anche grazie a questa rinascita, e alla nuova appetibilità di tutte le aree portuali e retroportuali, che si compie un altro destino per anni pericolosamente in bilico fra esigenze dell’economia e del lavoro da un lato, e della salute e dell’ambiente dall’altro, quello della Ferriera di Servola, del Gruppo Arvedi. Impianto ben più piccolo di quello dell’Ilva a Taranto ma ugualmente innestato dentro il tessuto urbano di due quartieri popolari, Servola e Valmaura. Un impianto secolare, costruito anch’esso al tempo dell’Impero e diventato motivo di scontro politico e di successo elettorale per la destra che negli ultimi vent’anni – dopo la privatizzazione del 1988 e il salvataggio di Illy e Prodi nel 1993, quando occupava 1200 addetti – vince diverse campagne elettorali al fotofinish con i voti popolari dei quartieri attorno alla Ferriera, rinunciando a ricercare quella coniugazione fra occupazione e ambiente che è sempre stato l’obiettivo del centrosinistra.

Qual è la novità? L’aumento dei traffici del porto ha fatto sì che siano diventati appetibili, per la logistica portuale e il funzionamento della nuova piattaforma logistica, i terreni su cui sono costruiti l’altoforno e la cokeria (le inquinanti lavorazioni a caldo) collocati proprio sul tratto “fronte mare” dove si prevede lo sviluppo di nuove aree di manovra per gestire i grandi volumi di traffico per i prossimi anni. Questo ha permesso a Stato e Regione di finanziare un nuovo accordo di programma con Arvedi, paradossalmente subito dopo la realizzazione degli investimenti per il risanamento ambientale e il raggiungimento di uno standard di emissioni finalmente conforme ai limiti di legge ottenuto con un primo accordo di programma. Accettata la dismissione dell’area a caldo, il nuovo piano industriale del gruppo ora prevede l’ampliamento degli impianti di laminazione a freddo costruiti nel frattempo accanto alla vecchia area a caldo, e l’uso di banchina e ferrovia del porto di Trieste per fare arrivare all’altro impianto di Cremona rinfuse, materie prime e semilavorati.

Tutto questo mentre sul porto si consuma un’altra contesa geopolitica per il controllo del commercio mondiale. Durante la presidenza Trump, gli Stati Uniti ridimensionano il proprio tradizionale interventismo in nome del primato della politica interna e del principio “America first”. E’ questo il momento in cui il porto di Trieste diventa un obiettivo per la Cina che, insoddisfatta dall’esito dell’investimento sul porto del Pireo, decide di ampliare ancora di più i suoi interessi nei confronti dell’Europa investendo nei Balcani occidentali e rilanciando in grande stile la nuova via della seta attraverso la Belt and Road Initiative. L’obiettivo cinese è fare dell’Alto Adriatico e del porto di Trieste il suo terminale in Europa. Gli Stati Uniti se ne accorgono e reagiscono quando in Italia Conte e Di Maio hanno già firmato l’intesa con la Cina per la Via della seta, che desta la preoccupazione anche di Ursula von der Leyen e dell’Europa. Ma quando tutto è già deciso, ecco il colpo di scena. Arriva una società tedesca, la HHLA partecipata al 51% dalla municipalità del Comune di Amburgo, e soffia la gestione della nuova piattaforma logistica ai cinesi. Una mossa che probabilmente va letta sempre nel contesto internazionale e geopolitico, prima che in quello strettamente economico: al posto di Trump alla guida degli Stati Uniti sta arrivando un Biden che ristringe immediatamente le relazioni con l’Europa, si riposiziona nello scacchiere internazionale e mal tollera il protagonismo cinese non tanto nel mercato interno come Trump, ma anche nel mercato globale.

Trieste porto franco

Se il porto di Trieste è così interessante, è anche per un altro motivo. Trieste è Porto Franco. Un’eredità che arriva dalla concessione di una patente nel 1719 da parte di Carlo VI d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, confermata da Maria Teresa d’Austria nel 1745 e nel 1769, quando vengono ampliati i privilegi di assenza di dazi per quanto riguarda i beni di consumo destinati alla città e al suo territorio e viene introdotto lo stesso privilegio per l’importazione di materie prime e l’esportazione di prodotti finiti dalle fabbriche triestine verso le altre provincie austriache. Un privilegio confermato durante la breve dominazione napoleonica, riaffermato dal successivo governo austriaco e poi dal Regno d’Italia a partire dal 1918. Uno status di internazionalità, autonomia e intangibilità che continuerà ad essere sancito anche dopo la II Guerra mondiale, quando Trieste è amministrata, fino al 1954, dal Governo Militare Alleato.

Già nel 1947 il Governo Italiano si impegnerà a mantenerlo come principio intangibile siglando con le potenze vincitrici a Parigi l’allegato VIII al trattato di pace, che ne sancisce lo status internazionale sotto l’egida delle Nazioni unite. Il particolare regime dei punti franchi del porto internazionale di Trieste si basa su due semplici principi sanciti a livello internazionale e che caratterizzano le primarie condizioni imposte dalle potenze alleate all’Italia per la sua gestione: il principio della libertà di transito ed accesso e quello della extraterritorialità doganale. Per decenni, fino a D’Agostino, nessuno ha fatto valere questa caratteristica per aumentare traffici e permanenza delle merci all’interno del porto. Questo regime non significa solo che i costi di transito per le merci, estero su estero, sono nettamente inferiori, perché una volta arrivate a Trieste e prima di ripartire per altre destinazioni Extra Ue, contrariamente agli altri porti europei, non pagano la dogana. D’Agostino e Sommariva intuiscono un’altra potenzialità per il futuro della città, ovvero quella di poter importare materie prime e semilavorati, trasformarli in regime di extraterritorialità senza sdoganarli per poi esportarli nuovamente. L’occasione, cioè, di un nuovo processo di industrializzazione del porto e del retroporto che può fare ricadere sulla città non solo le tradizionali e tutto sommato modeste royalty sul transito delle merci, ma anche e soprattutto i benefici derivanti dalla valorizzazione di semilavorati e materie prime attraverso il lavoro.

Solo un ultimo elemento è interessante da rilevare, per capire il quale scacchiere geopolitico ci muoviamo. Mentre Amburgo e Cina si contendono la nuova piattaforma logistica, Orban sigla con il governo Conte un accordo per la costruzione di un nuovo terminal nel Vallone di Muggia, dall’altro lato del Canale navigabile, proprio davanti alla piattaforma logistica gestita dai tedeschi, che è un traguardo storico per quel paese e un fiore all’occhiello per le sue ambizioni sovraniste. L’Ungheria torna sul mare e sull’Adriatico con un suo scalo che gestirà in proprio. Non accadeva dalla fine dell’Impero austroungarico, era il 1918. Davvero sembra la Trieste descritta da Marx, crocevia di un capitalismo globale. Che questa volta ha trovato però manager pubblici capaci di coniugarlo con crescita, diritti e sviluppo per tutti. Ma quanto durerà? E soprattutto non si può non notare lo scacco: la legge che ha permesso lo sviluppo del porto e la rinascita della città era del centrosinistra, così come è stato il centrosinistra con Serracchiani e Delrio a nominare D’Agostino e Sommariva. Scelte vincenti i cui frutti sono goduti però dalla destra, quella che anni prima, quando aveva potuto amministrare direttamente il porto, non lo aveva saputo gestire, facendo ristagnare sia il porto che l’economia della città. Scelte che ora però ben si guarda da mettere in discussione, continuando invece a fare propaganda e a prendersela con gli ultimi. Perché nonostante i risultati il centrosinistra è stato sbaragliato a livello elettorale? Che cosa ha sbagliato? Ma, soprattutto, come riattivare nuove energie, quelle energie che una società civile estremamente vivace sa bene esprimere? E’ la domanda che sta alla base della nascita di una nuova esperienza, quella di “Un’altra città”. Ma prima di raccontarvi di che cosa si tratta, continuiamo il viaggio nella Trieste di oggi.

La città della cultura e della ricerca. L’illusione del turismo

Dopo anni d’abbandono, grazie alla cura iniziata da Riccardo Illy negli anni ’90 Trieste riacquista un’attrattiva come città in cui si respira cultura e in cui la qualità della vita è alta. Città con una delle piazze fronte mare più belle e grandi al mondo, ha un’architettura molto affasciante che rielabora stili diversi sintetizzandoli in uno originale, l’ecclettismo. Passeggiando per il centro storico – e ammirando i vari quartieri sorti durante la grandeur imperiale teresiana, giuseppina e franceschina – si possono incontrare le statue di James Joyce e di Italo Svevo, che all’inizio del 900 rivoluzionavano la letteratura, attraverso il flusso di coscienza, o si può ancora oggi visitare la libreria antiquaria di Umberto Saba. A Trieste è nato Bobi Bazlen, il primo ad avere tradotto Freud in italiano, grande conoscitore di Brecht e grande animatore della vita editoriale italiana del secondo Novecento. Una delle tante figure, ingiustamente meno nota, che bene rappresentano il fermento creativo della Mitteleuropa, la sua apertura, il suo essere avanguardia.

Dopo la caduta della cortina di ferro e la fine della guerra fredda, Trieste è diventata meta del turismo italiano e straniero. Sono sempre più frequenti i tedeschi e gli austriaci che comprano la loro seconda casa in quella che per loro è la città sul mare più vicina, dove i duecentomila abitanti, attualmente residenti, possono godere di un enorme patrimonio immobiliare, per gran parte di pregio- dimensionato per trecentomila persone, in gran parte inutilizzato e quindi con ottimi prezzi di mercato per l’acquisto o per la realizzazione di un B&B. Tutto in questa città parla la lingua del cross over, del meticciato, dell’eclettismo. Basta fare un salto al museo Revoltella, che prende il nome dal suo donatore, il barone Pasquale Revoltella, proprio il protagonista della costruzione, a fine ‘800, del canale di Suez. Lì trovi i dipinti di Arturo Nathan, padre indiano, madre ebrea, deportato e morto in un campo di sterminio. Oppure trovi le opere di Leonor Fini, nata Buenos Aires, morta a Parigi nel 1996. E poi i Festival cinematografici internazionali, primo fra tutti il Trieste Film festival, l’area geografica di Alpe Adria come avamposto da cui osservare il cinema dell’Europa dell’Est e le trasformazioni che lì stanno avvenendo.

E poi la ricerca. Nel secondo dopo guerra, fra gli anni ’60 e ’80, mentre si consumava la deindustrializzazione definitiva di quella che era stata una delle più importanti realtà industriali dell’impero, con una classe operaia fra le più consapevoli e forti in Europa, fu questo il modo per ricompensare una città che era stata porto di un impero globale e che nei nuovi equilibri mondiali per l’occidente ridiventava margine: investire sulla ricerca. E’ così che Trieste riesce ad attrarre una moltitudine di centri di ricerca internazionali che in quegli anni saranno anche cerniere culturali di una strategia multilaterale verso l’Est e il Sud del mondo: fra questi, il Centro Internazionale di Fisica Teorica (ICTP), la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA),l’Area di ricerca, il Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologie (ICGEB) e l’anello di luce di sincrotrone Elettra costituiscono quello che sarà poi definito il Sistema Trieste. Oggi la città è quella con l’intensità di ricerca maggiore in Italia e tra le maggiori in Europa e nel mondo, dove si sono formati migliaia di fisici e biologi che poi sono andati a vivere e fare ricerca in ogni parte del mondo.

Oggi la città corre vari rischi, tra cui quello della gentrificazione, che ha riguardato soprattutto il borgo medievale di Cavana e ora si sta espandendo in altre zone del centro storico, e la trasformazione del centro in un “divertimentificio”, problema che riguarda del resto molte città. Ma la questione principale è quella della mancanza di una visione e di una idea di città da parte della politica. La destra ha un progetto effimero, basato solo sul terziario, sul commercio e su un turismo senza qualità, in un momento in cui dovrebbe essere proprio la politica a guidare le trasformazioni dell’economia redistribuendo lavoro e ricchezza e facendo crescere tutta la città. Questa mancanza di visione la si può misurare bene, nel dibattito e nelle scelte sul Porto Vecchio: la vasta area “fronte mare” su cui insistono i vecchi magazzini del porto austriaco, inutilizzabili per la moderna logistica portuale, potrebbero invece essere un’altra carta vincente per il rilancio dell’economia della città. Gli interventi finora pensati dal centrodestra sono stati fatti con la logica dello spezzatino, senza nessuna idea, forza o vocazione specifica: la vendita ai privati dei lotti più appetibili e il trasferimento di funzioni pubbliche, con il rischio di attrarre costruttori di nuove abitazioni private che creerebbero nel tessuto urbano nuovi “buchi neri”. Aumenterebbe così ulteriormente il patrimonio inutilizzato della città.

Psichiatria e accoglienza, due modelli di eccellenza

Negli ultimi trenta, quarant’anni Trieste ha costruito esperienze all’avanguardia nel welfare e nella tutela dei diritti, e il motore è stata la rivoluzione basagliana. Basaglia arriva a Trieste nel 1971 come direttore dell’ospedale psichiatrico. Il suo sogno è quello di chiudere i manicomi e con la legge 180 diventerà realtà per tutto il Paese. A Trieste la riforma basagliana ha continuato a vivere, continua a vivere. Dopo la chiusura dei manicomi, quelle istituzioni totali contro cui Basaglia si schierava anche nello scambio intellettuale che aveva con Michel Foucault, a Trieste, meglio che altrove, nascono delle vere e proprie reti di cooperazione sociale, a partecipazione pubblica e del privato sociale, che garantiscono alle persone che lasciano i manicomi di avere una casa protetta dove stare insieme, a piccoli gruppi e con la presenza di operatori, senza gravare della propria condizione le sole famiglie. Queste esperienze nate sul territorio finiscono per essere le piattaforme da cui si sviluppa un welfare innovativo. Il tessuto della cooperazione sociale è ricchissimo, a Trieste e in tutta la regione, e il modello di deistituzionalizzazione della psichiatria basagliana, che nel resto d’Italia ha faticato di più ad affermarsi, è un esempio studiato in tutto il mondo. Nel Parco di San Giovanni incontri i giovani psichiatri di tutta Europa e argentini e brasiliani sono di casa. Un’altra idea di psichiatria che trascina dietro a sé un’altra idea di salute, che si fonda non solo sull’anamnesi medica, ma anche su quella sociale. Una politica della sanità incentrata non solo sulla cura delle acuzie nei grandi ospedali, ma sulla prevenzione e la promozione di benessere e stili di vita sani sul territorio che diventa realtà con i Distretti territoriali e con i progetti delle Microaree nei quartieri periferici.

L’altro modello di welfare di eccellenza triestino è quello dell’accoglienza dei migranti. Nasce durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Allora molte persone fuggendo dalla guerra arrivano a Trieste e bisogna assisterli con cibo, vestiti, un tetto. Lo si fa utilizzando case e appartamenti, più che grandi centri di raccolta. Molti si fermano e finiscono per integrarsi completamente nel tessuto sociale della città. Nasce così quel modello di accoglienza diffusa che si prova a replicare con coraggio quando la città diventa tappa della rotta balcanica e principalmente dall’Asia – Afghanistan, Pakistan, Kurdistan, Siria – cominciano ad arrivare i nuovi migranti in fuga dalle guerre. Oggi i vari appartamenti gestiti in città dall’Ics, sono un polmone di accoglienza in cui transitano richiedenti asilo e protezione internazionale. Sbrigando le pratiche di ingresso nell’Unione, trascorrono in città qualche mese prima di proseguire il loro viaggio, spesso verso il centro e il Nord Europa. Tutto il contrario del modello imperante che chiude i migranti in grossi centri di raccolta. Non a caso tutto questo accade nella città di Basaglia, difficile riproporre qui nuove istituzioni totali.

Ecco, come è possibile che in questa città all’avanguardia in molti settori, dall’economia alla ricerca, dalla cultura e il cinema al welfare, sul terreno della politica sia egemone il centrodestra? Un centrodestra cinico fino a essere crudele, che costruisce le panchine quadrate per non far sedere i senza fissa dimora. Un centrodestra che ha un vicesindaco che fa le spedizioni contro le coperte e i cartoni dei clochard e va in giro con una telecamerina in cui si fa riprendere mentre caccia i migranti che aiutano i turisti a trovare parcheggio sulle rive provando a vendergli un braccialetto. Eppure il centrosinistra fra il 2013 e io 2018 ha governato bene la Regione. In che cosa ha sbagliato?

Le ragioni della sconfitta e l’esperienza di Un’altra città

Azzardiamo un’ipotesi. Che la sconfitta del centrosinistra in Regione sia in primo luogo imputabile all’ondata populista e che abbia avuto un peso proprio la campagna contro gli immigrati. Un governo della Regione che pur non avendo competenze dirette, cercava di promuovere nei Comuni il sistema SPRAR di accoglienza diffusa, per quanto riformatore, dava fastidio a chi comunque non tollera l’idea che anche chi non è italiano possa godere di diritti. Il discorso anti immigrati ha avuto una grande presa nel determinare la vittoria della Lega, che ha potuto giocare anche un’altra carta: la riforma della sanità regionale. La proposta realizzata dal centrosinistra è stata quella di un sistema ospedaliero a “hub and spoke” che ha ridimensionato alcuni ospedali, costosi e poco qualificati, investendo sugli altri e trovando nuove risorse per Case della salute, distretti e medicina territoriale. Esattamente quello che oggi, dopo la pandemia, è diventato il modello per tutte le regioni.

Ma quando si è votato in Friuli Venezia Giulia non c’era stato ancora il covid e certi discorsi potevano essere facilmente strumentalizzati. L’economia cresceva, il porto apriva in città nuove possibilità, eppure anche a Trieste il centrosinistra ha perso. Un centrosinistra non certo esente da responsabilità, con partiti ingessati in forme ormai distanti dalla società, chiusi spesso in piccole lotte di potere e prigionieri dei personalismi, incapaci di raccogliere le energie migliori e le domande della società civile. La crisi della democrazia e della forma dei partiti si è sentita pure a Trieste. Ed è per tentare di uscire da questo doppio impasse – vittoria del centrodestra e crisi del centrosinistra – che è nata l’esperienza di “Un’altra città”, cioè il tentativo di fare parlare fra loro alcuni dei microcosmi (per usare la definizione data da Claudio Magris) che animano la ricchezza sociale della città, di solito ignorandosi e andando avanti ognuno sulle sue cose e per la propria strada. Trieste ha il più alto numero di associazioni in ogni campo della vita sociale e civile, il che testimonia grande vitalità ma anche spirito di scissione e individualismo. “Un’altra città” ha provato a mettere al lavoro insieme alcune delle diverse storie e competenze che compongono il sapere sociale della città e, in due anni di incontri e iniziative pubbliche, ha costruito un programma di cento punti per il futuro di Trieste. Mentre un gruppo di giovani ha scelto di costruire una propria lista con un proprio candidato sindaco, “Un’altra città” molto probabilmente non diventerà una lista elettorale – si vota in autunno – ma piuttosto offrirà la propria piattaforma programmatica a tutto il centrosinistra affinché la faccia propria. Coloro che partecipano a questa rete hanno, in alcuni casi, precedenti esperienze politiche, e c’è chi tuttora è iscritto al Pd, alla sinistra civica di Open Fvg e ad Articolo 1 e lavora insieme a cittadini che non si sono mai occupati direttamente di politica. L’idea è quella di non stare a guardare ma di intromettersi e prendere parte in un momento decisivo per il futuro della città vincendo l’inerzia della politica, di maggioranza ma anche di opposizione. Con un programma di governo, come sta avvenendo per esempio nello studio del progetto di rigenerazione urbana del Porto Vecchio, che vede urbanisti, architetti, ricercatori e giovani professionisti a confronto per definire una strategia in cui sia tutta la città, come impresa collettiva, a disegnare il futuro di quell’area, non il provincialismo abbastanza bottegaio di chi oggi amministra la città. Si tratta, a differenza degli attuali partiti, di costruire partecipazione e cambiamento, e di farlo riconquistando le periferie prima che il centro della città.

 

Giulio Lauri è Presidente di Open FVG

 

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